Marco Balbi
La Grande Guerra in alta montagna
Diamo un breve sguardo alle caratteristiche di quella che è stata definita la Guerra Bianca: quella guerra cioè che si combattè sul fronte italiano durante il Primo conflitto mondiale a quote altimetriche anche molto elevate e in condizioni fisiche, ambientali e meteorologiche fino ad allora ritenute impossibili sia per l'uomo, in generale, ma soprattutto per dei soldati che, oltre a sopravvivere in condizioni così estreme, dovevano pensare anche a combattere.
La guerra in alta montagna nasce proprio con lo scoppio della prima guerra mondiale sul fronte italiano. Fino a quel momento le dottrine strategiche degli stati maggiori, sia quello italiano che quello austriaco, avevano escluso la possibilità di impiegare truppe alle quote elevate che, sempre secondo gli strateghi, in caso di conflitto sarebbero rimaste terra di nessuno o, al massimo, sarebbero state attraversate da qualche ardita pattuglia.
Negli anni precedenti il conflitto qualche ufficiale delle truppe alpine, soprattutto fra gli austriaci, ma anche fra gli italiani, tentò di dimostrare il contrario, cioè che anche le montagne più alte sarebbero potute diventare luogo di scontro: ricordiamo per esempio l'impresa del capitano Ludwig Scotti, che nell'inverno del 1913 portò una compagnia di Kaiserjager in cima alla Marmolada, sollevando stupore e scandalo: ma gli stati maggiori non presero in seria considerazione queste dimostrazioni e non si preoccuparono di dare una vera e moderna istruzione alpinistica alle proprie truppe: una cosa abbastanza assurda se si pensa che la frontiera fra Italia e Austria era costituita per la maggior parte da montagne.
Ma già pochi giorni dopo l'inizio del conflitto i comandi si resero conto dei propri errori: le zone che sarebbero dovute rimanere terra di nessuno furono invece sempre più spesso teatro di scontri fra pattuglie; poi si cominciarono ad occupare i passi, le forcelle, le creste, le cime e il fronte si spostò rapidamente in montagna e la guerra assunse delle caratteristiche del tutto inaspettate: interi battaglioni si trovarono a combattere in zone che fino ad allora erano state il regno esclusivo di aquile e camosci.
Si pensò che almeno d'inverno queste scomode linee sarebbero state abbandonate, per tornare poi ad occuparle in primavera: ma anche quest'illusione era destinata a cadere.
Partendo dal passo dello Stelvio, il fronte passava attraverso i gruppi montuosi più elevati delle Alpi orientali come l'Ortles Cevedale, l'Adamello e la Presanella: scendeva poi nelle Giudicarie, in val d'Adige e dopo un tratto nelle prealpi in cui toccava il Pasubio e la zona di Asiago, tornava alle quote più elevate della catena dei Lagorai, della Marmolada, delle Dolomiti, del Comelico e delle Alpi Carniche: un fronte che da una parte, era sicuramente fra i più duri e inospitali, ma dall'altra aveva come sfondo delle zone di incomparabile bellezza: ed è questo un aspetto che, come risulta dalle memorie di molti combattenti dell'epoca, aiutava i soldati a vivere in maniera un po' meno drammatica la loro esperienza di guerra; anche se le condizioni ambientali erano spesso proibitive non c'era certo paragone con le condizioni quasi disumane e opprimenti in cui dovevano vivere i fanti nelle trincee del Carso e dell'Isonzo, o sul fronte francese.
La caratteristica principale della guerra in alta montagna oltre, ovviamente, a quella della particolarità dell'ambiente in cui si svolse, fu quella di non essere una guerra di masse, come quella che si svolgeva sull'Isonzo: a parte alcune eccezioni come il Col di Lana, l'Ortigara e anche l'Adamello,dove si svolsero attacchi in cui si impiegarono parecchi battaglioni contemporaneamente, si trattò per lo più di una guerra fra piccoli reparti, fra pattuglie: addirittura, qualche volta fra singoli combattenti: come il duello di sapore quasi omerico che si svolse sulla vetta del monte Paterno il 4 luglio del 1915 quando Sepp Innerkofler, una famosa guida di Sesto di Pusteria, nel tentativo di cogliere di sorpresa il presidio italiano sulla vetta con una silenziosa scalata, venne scoperto quando era ormai quasi in cima e ucciso da un alpino con un sasso.
E a questo episodio ci si può rifare anche per accennare all'estrema cavalleria che caratterizzò i combattenti di questo fronte: perchè gli stessi alpini che avevano ucciso Innerkofler rischiarono poi la vita per recuperarne la salma e seppellirla in cima al Monte: ma questo è uno solo dei tanti episodi che si potrebbero raccontare.
Una cavalleria che derivava anche dal fatto che molti di questi uomini provenivano dalle stesse valli in cui si combattevano: trentini, tirolesi, ladini, feltrini, bellunesi, cadorini si conoscevano fra di loro già prima della guerra grazie ai commerci, al contrabbando, all'emigrazione in cerca di lavoro. Conoscevano molto bene anche le montagne su cui ora erano costretti a spararsi: molti fra loro erano famose guide alpine, come il già citato Innerkofler, o alpinisti di chiara fama come Arturo Andreoletti, il comandante del settore Ombretta nella Marmolada, Gunther Langes, Antonio Berti o la guida valdostana Giuseppe Gaspard.
Spesso le stesse azioni militari diventavano delle vere imprese alpinistiche: come la conquista del passo della Sentinella, di cui si parla stasera, o gli assalti al monte Cristallo e a Cima Trafoi nel gruppo dell'Ortles, o la presa del Corno di Cavento nell'Adamello: e anche la Marmolada fu palestra, tra virgolette, di alcuni episodi alpinisticamente validi, come la conquista da parte di una pattuglia d'alpini del battaglione "Val Cordevole", dopo una bella ascensione, della Marmolada d'Ombretta (3153 m slm). Rimaniamo in Marmolada perchè la Marmolada ci offre lo spunto per parlare di altri due aspetti fondamentali di questa strana guerra: la difesa dalle intemperie e dal freddo, e il pericolo delle valanghe.
La lotta contro il maltempo e le tormente, il freddo e gli assideramenti diventò molto spesso più importante della lotta stessa contro il nemico. Soprattutto in inverno e alle quote più alte i combattimenti cessavano quasi del tutto e i soldati erano impegnati allo spasimo a difendersi dalla neve, a cercare di mantenere i collegamenti con il fondovalle per avere i rifornimenti di cibo e di legna per riscaldarsi, e a tenere le trincee sgombre. L'inverno fra il 1916 e il 1917, oltretutto, per sfortuna dei combattenti, fu tra i più freddi e nevosi del secolo e anche se ormai i due eserciti si erano organizzati per resistere alle alte quote con la costruzione di baracche, di ricoveri, di caverne nella roccia e di decine di chilometri di teleferiche per i rifornimenti, la vita divenne lo stesso quasi impossibile.
Per sottrarsi alla morsa del maltempo nel ventre della Marmolada gli Austriaci costruirono una vera e propria città sotto il ghiacciaio con oltre otto chilometri di gallerie e ricoveri per gli uomini, depositi di viveri e munizioni, stazioni delle teleferiche, un'infermeria, gli uffici del comando: in tutto vi erano una trentina di caverne scavate nello spessore del ghiacciaio a parecchi metri di profondità, colegate fra loro da cunicoli muniti di ponticelli e passerelle. In qualche punto i soldati vivevano sino a quaranta metri sotto la superficie del ghiacciaio. La temperatura all'interno scendeva raramente sotto lo zero, mentre all'esterno il termometro segnava anche 20 sotto zero. L'ideatore di questo villaggio fu il capitano Leo Handl, comandante della compagnia di Bergfuhrer (cioè di guide alpine "militari") che si trovava sulla Marmolada.
Lunghe gallerie nel ghiacciaio per rifornire le posizioni più avanzate vennero scavate anche sull'Adamello (dove per il trasporto vennero utilizzati cani e asini e dove venne realizzata una galleria lunga più di cinque chilometri che collegava il passo Garibaldi con il passo della Lobbia: era illuminata da 120 lampadine elettriche alimentate da due gruppi elettrogeni, attraversava 25 crepacci e aveva 80 camini per la ventilazione) e nell'Ortles.
Sempre in Marmolada il 17 dicembre 1916 avvenne un tragico episodio che può essere preso ad esempio di un alto grave pericolo a cui dovevano far fronte i soldati in quella guerra: quello delle valanghe, un fenomeno che nell'inverno 1916-17 provocò più vittime dei combattimenti. Quel giorno un'enorme slavina, che è stata calcolata in oltre un milione di metri cubi di neve, travolse il villaggio di baracche austriaco del Gran Poz e provocò oltre 300 vittime. Pensate che le ultime salme poterono essere recuperate solo nella successivi primavera col disgelo. Ma tutto il fronte venne flagellato da disgrazie di questo genere, dal'Ortles all'Isonzo.Ci sarebbero ancora molti altri aspetti particolari di questa strana guerra di cui bisognerebbe parlare: per esempio dei trasporti a fune, delle teleferiche, che ebbero proprio qui un grande impulso; o degli sforzi fatti per portare pezzi d'artiglieria a quote impensabili; o delle cosiddette "portatrici", le donne che portavano a spalla i rifornimenti agli uomini che stavano sulle montagne, fra cui, spesso e volentieri, c'erano i loro stessi mariti, figli o fidanzati; un altro argomento, che meriterebbe un discorso a parte, è quello della guerra di mine: ben 34 furono quelle fatte saltare sul fronte trentino-tirolese e alcune, come quelle del Lagazuoi o del Col di Lana, cambiarono per sempre il volto delle montagne.
Il mio augurio è che ci si ricordi un po' di più di tutti coloro, Italiani, Austriaci e Tedeschi, che hanno sofferto e lasciato la loro vita sulle nostre montagne. E soprattutto che se ne ricordi chi va in montagna e che chi ripercorre quei luoghi lo faccia con rispetto e con un minimo di conoscenza dei fatti che vi sono accaduti.