Amedeo Tosti
Piccoli cimeli di una grande tragedia. Targhette commemorative e distintivi dell'esercito austro-ungarico
Primi di novembre nel 1918, in Val Lagarina. Nel pomeriggio del giorno dei Morti le truppe del XXIX Corpo d'armata erano passate all'attacco sulle due rive dell'Adige, rapidamente travolgendo le difese austriache del fondo valle; la sera stessa era stata raggiunta Rovereto, e nella notte proseguiva; irresistibile, la marcia su Trento. Trento! Nome caro ed inebbriante, che a noi, curvi quella notte sui telefoni, faceva balzare il cuore come nell'imminenza di un evento, cui non si sapeva, non si poteva quasi credere.
La notte sembrò lunga, eterna, si temeva sempre che da un momento all'altro gli apparecchi potessero segnalarci qualche cosa di nuovo, che una circostanza imprevista, un ostacolo improvviso potessero arrestare il corso della storia, che pure si sentiva ormai fatale. Ma poi, quando fu spuntato il mattino - un mattino fulgido di autunno - tutto, telefoni, motociclisti, aviatori levatisi in volo, tutto venne a dirci che nelle vie piene di sole, lungo entrambe le sponde dell'Adige, le truppe redentrici segiutavano nella rapida avanzata verso la città del nostro sogno, ovunque accolte con entusiasmo fremente, mentre intere unità austriache, dopo più o meno lunghe tergiversazioni, deponevano le armi; nell'aria stessa correva un respiro ampio di vittoria, e tutto pareva annunciare che oramai la guerra era finita, il nemico annientato.
Allora, una vera smania di correre, di giungere tra i primi a Trento cominciò a prendere un po' tutti; ovunque si trovavano automobili e motocarrozzette, venivano messe in moto e faticosamente si aprivano la strada, superando le colonne in marcia ed attraversando una continua, duplice fila di prigionieri allibiti… L'avanzata, in una gloria di luce, diventava una corsa trionfale.
Poi, seguitò per giorni il defluire dei prigionieri. Le rivedo ancora nella memoria quelle lunghe, quasi infinite colonne, che si snodavano lente e monotone lungo le strade delle vallate tridentine; torme di uomini sudici e malvestiti, dall'aspetto denutrito e stanco, con un senso di supina e quasi animalesca rassegnazione dipinto sul volto. Più che l'onta della sconfitta, pesava su quell'enorme gregge umano l'ansia di tornare in patria, l'incertezza del domani; se taluno atteggiava la bocca ad un sorriso, che sembrava piuttosto un ghigno, era probabilmente per la soddisfazione di veder finita finalmente la guerra e di poter saziare la fame: poiché in Italia - lo sapevano e lo dicevano tutti - c'era ancora tanto e bono manciare.
I primi contatti d'ordinario, dei prigionieri con i nostri soldati e con i civili, si risolvevano in una richiesta di alimenti; in cambio offrivano di tutto, denaro, orologi, oggetti di equipaggiamento, e soprattutto quelle targhette commemorative dei fatti più salienti della guerra, ch'erano una caratteristica dell'esercito austriaco, ed i distintivi metallici di unità e reparti. Di queste targhette e distintivi ne possedevano tutti in numero più o meno grande; c'erano dei soldati, che ne avevano addirittura costellati i sudici berretti.
Povere targhette, con le quali i comandi militari della crollante monarchia si erano illusi di eternare gli effimeri successi delle armi austriache e di tener desto lo spirito guerriero dell'Esercito! Ideate ed incise talvolta anche da artisti di qualche nome, distribuite dalle mani di un Arciduca o di un pluristellato generale, indubbiamente esse dovevano aver avuto una certa efficacia psicologica sull'animo semplice del soldato, perché si sa, il soldato di tutti gli eserciti è sempre un po' fanciullo.
Per i veterani di quattro anni di guerra doveva certo essere un orgoglio poter mostrare, per mezzo di quei piccoli, metallici documenti, che essi avevano conosciuto i piani sconfinati della Bucovina e la petraia carsica, i boschi della Galizia e le rocce delle Dolomiti, le nevi dei Carpazi ed i ghiacci della Marmolada.
Ora, nel dissolvimento generale e nella disfatta, i superstiti di quell'esercito possente che un giorno era stato arbitro dell'Europa, parevano abdicare non soltanto agli impulsi generosi che pure avevan fatto compiere loro, su tutte le fronti della guerra immane, gesta non indegne di una grande tradizione e di un passato glorioso, ma alla loro stessa umanità. Pane, bono italiano! Ed in cambio i nostri soldati empivano tasche e giberne di quei piccoli cimeli di guerra; misere testimonianze di quattro anni di fatiche e di orrori, di freddo e di fango, di nostalgia e di speranze… ed anche, è doveroso riconoscerlo, di vittorie ed eroismi. E nel gesto, col quale qualche prigioniero si strappava dal petto anche la medaglia al valore col motto "Fortitudini" o quella dei feriti con la scritta: "Leso militi", c'era tutta la muta disperazione di chi sentiva di non aver più dietro di se una patria, che potesse rendere onore al suo valore ed al sangue inutilmente versato.
Spettacolo veramente indimenticabile - tale da far pensare ad una delle più strane e paurose visioni Düreriane - quello che offrirono le campagne fra Trento e Rovereto, in quelle serate del 4 e 5 novembre! I campi che fiancheggiavano le due grandi strade di val d'Adige si erano tutti tramutati in un solo, sconfinato bivacco di prigionieri, e qua e là ardevano i grossi fuochi ch'essi tenevano accesi per vincere il freddo della notte novembrale. Al riflesso delle fiamme assumevano le espressioni più strane le facce dei prigionieri, e fra essi si aggiravano, rare e imbacuccate, le nostre sentinelle; talvolta un solo, piccolo fante, dal volto di fanciullo semicelato sotto l'elmetto, faceva la guardia a centinaia di ungheresi, lunghi e grossi da far paura… Sul bordo dei campi, verso la strada, cavalcando lentamente avanti ed indietro carabinieri a cavallo e soldati di cavalleria, le cui lance si profilavano nettamente nella notte.
Fu appunto in quelle serate che aggirandomi per ragioni di servizio in quei bivacchi di prigionieri, potei raccogliere anch'io talune di quelle targhette e di quei distintivi: modesta iconografia bellica, nella quale è agevole tuttavia scorgere qualche segno della mentalità austriaca e della concezione che capi politici e militari avevano della guerra, e specialmente di quella contro di noi.
Diamo un'occhiata, ad esempio, ai distintivi di armi e corpi dell'esercito austro-ungarico, di grandi unità, di corpi speciali. Nulla di speciale nel distintivo degli appartenenti alla 1^ Armata, rimasta sempre sulla fronte orientale; non vi si vedono che taluni profili di fucilieri in atto di tirare. Ma ecco subito dopo i distintivi delle tre armate che erano dislocate sulla nostra fronte negli anni 1915-1917: le due del Trentino (10^ e 11^) e la Isonzo Armèe. In quella della 10^ Armata è raffigurata un'aquila che spicca il volo dalle rocce alpine; in quella dell'11^ invece, si vede, un animale cornuto (evidentemente vuol raffigurare l'Italia) che cozza con impeto contro una muraglia rocciosa, dall'alto della quale vigila una scolta austriaca; in quella, infine, dell'Isonzo Armèe è raffigurato un gruppo di Austriaci in atto di difendere una posizione: uno di essi, in piedi, sta per scagliare sugli assaltatori un grosso macigno. Già in queste rozze figurazioni si può scorgere evidente l'intenzione di inspirare nei soldati quel senso di invincibilità ed anche di superiorità su noi Italiani, che fu, del resto, caratteristico degli ambienti militari e politici austro-ungarici, per oltre mezzo secolo: errore di valutazione e di psicologia che l'Austria doveva fatalmente scontare nel 1918.
Altri distintivi di questo primo gruppo non offrono anch'essi alcunché di particolare: si possono notare tutt'al più le buone intenzioni artistiche di qualcuno, se non l'altrettanto accurata esecuzione. Ecco, così, nel distintivo delle truppe di sanità un cane di quelli addetti alla ricerca dei feriti sulla neve, che chiama aiuto presso un soldato giacente: una muscolosa figura alata in quello degli aviatori (Flieger); uno sciatore nella cornice di un paesaggio alpino, in quello dei reparti sciatori; un'arma in posizione, con i suoi serventi, in quello dei mitraglieri; un profilo dolomitico, fiancheggiato da due grossi proiettili d'artiglieria, in una targhetta pro fondo invalidi dell'artiglieria da fortezza. Ed ancora, un profilo energico di fante nel distintivo del 47° reggimento fanteria ed una teoria sonante di nomi in quello del 27°: Isonzo, Carnia, Italia, Galizia, Carpazi, Doberdò; un pezzo da 305 in azione, in quello dei gruppi di artiglieria pesante; un edelweiss a smalto, per la famosa divisione che aveva il nome del bel fiore alpino. Nel distintivo, invece, del 4° reggimento zonved, vediamo un soldato che, armato di mazza ferrata, sta per colpire un'orribile idra; onore, questo, fatto dall'ignoto incisore all'Italia, e che vedremo più volte ripetuto.
Più interessanti, ed anche in genere di migliore esecuzione, son talune targhette commemorative di eventi di guerra, sia sulla fronte orientale sia sulla nostra. Bella, ad esempio, quella che ricorda la grande lotta sostenuta dall'esercito austro-ungarico sui Carpazi, negli anni 1914-15: dall'alto di una sella montana si affaccia un grosso orso (la Russia) contro cui una fila di soldati austriaci apre il fuoco da una trincea; attorno al dischetto con l'indicazione della grande unità (3^ Armata) corre la scritta incitatrice: "durchkalten!" (tener duro!). un'altra targhetta, poi, una delle più grandi, ricorda la presa di Belgrado per merito della stessa 3^ Armata: un'altra, l'opera dei pontieri del genio nella stessa operazione; un'altra ancora, la conquista del Lovcen.
La costituzione della quadruplice alleanza, con l'entrata in guerra della Bulgaria e della Turchia, è anch'essa ricordata con una targhetta, che reca l'effigie dei quattro sovrani: maggior simpatia, invece, perché inspirata a sentimenti universali di pietà, desta la targhetta destinata a commemorare i caduti di Tarnow e Gorice, nella quale un soldato a cavallo piega la fronte davanti ad un crocefisso campestre.
Ed eccoci al gruppo di maggior interesse per noi italiani: quello, cioè, che ebbe lo scopo di ricordare le vicende belliche della nostra fronte, tanto più che in esso particolarmente ci sarà dato di cogliere qualche aspetto della tradizionale mentalità, nei nostri riguardi, del vecchio mondo militare asburgico. Nulla di speciale nei distintivi destinati alle truppe operanti nel settore: Alpi di Fassa-Marmolada, sulle Dolomiti, nella zona di Buchenstein (Col di Lana), in val Pusteria (Pusterthal). Si guardi, invece, la targhetta circolare coniata per l'entrata in guerra dell'Italia: una scudata ed amazzonica figura femminile procede con la spada fieramente levata, mentre un uomo, alle spalle, sta per colpirla con un pugnale. In un angolo, la scritta "Austria et Italia 1915". È evidente l'allusione al preteso tradimento italiano, il vecchio luogo comune, del quale l'Austria si avvalse durante tutta la guerra per eccitare l'odio delle popolazioni e dell'esercito contri di noi. Ed un anno dopo, ecco la punizione inesorabile: la Conradiana strafe expedition. Un guerriero loricato, una specie di eroe nibelungio, dal volto tedescamente irato, calpesta e colpisce con la sua lancia il solito drago: l'Italia. Attorno si leggono i nomi di Asiago, Costesin, Punta Corbin. L'artefice di questa targhetta (effettivamente una delle migliori), che ha tenuto ad eternare in un angolo di essa il suo nome (E. Thurner), si dev'essere certamente troppo affrettato a compiere la sua piccola opera; altrimenti, a quei tre nomi avrebbe potuto aggiungere parecchi altri della stessa offensiva, ed altrettante sonanti se non parimenti graditi ad orecchie austriache: Pasubio, Passo Buole, Monte Giove, Novegno!
Un altro guerriero, dalla spada fiammeggiante e con un vessillo spiegato nella sinistra, si vede effigiato nella targhetta del gruppo di Armate dell'Arciduca Eugenio, evidentemente coniata nello stesso periodo.
Né più indovinata e di buon gusto può dirsi un'ultima targhetta di questo gruppo, che vuol celebrare i fasti delle mazze ferrate nel famoso attacco con i gas asfissianti sul San Michele, il 29 giugno del 1916; alla mazza ferrata, che campeggia sullo sfondo del San Michele, si intreccia un ramo di alloro. Ben triste e non invidiabile alloro, e quanto diverso da quello che i nostri soldati colsero, poco più di un mese dopo, negli abbandonati giardini di Gorizia!…
A quest'ultima battaglia, certo, gli Austriaci non poterono dedicare una delle loro targhette, né a quella della Bainsizza, un anno dopo. E per quanto potesse essere giustificabile, non risulta neppure che ne sia stata coniata una per l'offensiva di Caporetto; probabilmente, perché troppo rincresceva agli Austriaci il fatto che, per rincalzare le sorti del loro esercito - per confessione austriaca stessa, vacillante sotto gli ultimi colpi di Cadorna - e per conseguire quell'ultima ed anch'essa effimera vittoria, fosse stato necessario l'intervento di quell'alleato tedesco, che non nascondeva all'esercito austriaco ed ai suoi Capi la sua scarsa considerazione ed il suo cruccio per i continui insuccessi.
Dopo Caporetto ed il rapido, quasi miracoloso risollevarsi dell'esercito italiano, ben altro ebbe da fare e pensare l'Austria che coniare e distribuire targhette commemorative ai soldati! Il mosaico Asburgico cominciava a dare i primi preoccupanti segni della prossima disgregazione, e bisognava correre ai ripari con un'attiva, per quanto vana, propaganda, si dette, poi l'Austria, sulla nostra fronte, con una specie di offensiva cartacea, a base di scritte mirabolanti issate sulle trincee, di manifestini multicolori lanciati dagli aeroplani, di opuscoli e giornali celebranti con frasi maniloquenti e minacce apocalittiche i successi dell'alleata Germania sulla fronte francese. Con questi mezzi puerili (sarebbe interessante una rassegna anche di essi) s'illudeva il Comando nemico di poter fiaccare l'animo dei nostri soldati, aggiungendo così ancora un errore psicologico ai molti altri commessi nel passato.
Come inefficaci erano stati i mezzi di propaganda dall'Austria escogitati per indurre alla resistenza le sue truppe e per tener loro indipendenza, così, ed ancor più, dovevano rivalere tutta la loro grottesca inanità i tentativi di subornazione e di fraternizzazione, posti in opera sulla nostra fronte negli ultimi mesi di guerra.
L'esercito italiano non era l'esercito russo; la crisi stessa, che aveva prodotto lo smarrimento e la sconfitta dell'autunno del 1917, era valsa a ridare al popolo nostro e all'esercito la coscienza piena della lotta che si combatteva ed a diffondere nelle masse, per la prima volta forse, il senso vero, alto, compiuto della Nazione. Ne fece ben dura prova l'Austria nelle giornate di giugno, sul Piave, ed a Vittorio Veneto.
Confessavano amaramente gli errori gli errori e la cecità dei loro comandi gli stessi ufficiali austriaci, che in quelle sere del novembre indimenticabile piegavano sotto il peso dei ricordi e della umiliazione, le fronti, illuminate dal riverbero dei fuochi di bivacco… E quelli ch'erano stati già soldati di un grande esercito seguitavano ad andare offrendo i piccoli cimeli dell'immensa tragedia, le ultime misere spoglie delle Armate imperiali e reali.
Pane, bono italiano!