Damiano Leonetti
L'onore di una lapide: i fucilati tra i caduti della Grande Guerra
Comunicazione dell’ing. Damiano Leonetti del 16 giugno 2023
Non poteva esserci occasione migliore. Dopo un secolo, da quando cioè il 4 novembre 1921 venne sepolto all’Altare della Patria il ‘Soldato Ignoto’ quale simbolo dei caduti italiani della Grande guerra, la Repubblica Italiana è riuscita a fare un gesto risarcitorio nei confronti dei suoi figli rimasti vittime dell’arbitrio del comando supremo nel corso di quel conflitto. Se poi pensiamo a come nac- que l’idea di creare quell’emblema che avrebbe dovuto raccogliere la totalità dei sentimenti di una popolazione segnata dal dolore per la perdita dei propri cari al fronte, l’apposizione della lapide che dal 28 ottobre 2021 si trova al Vittoriano quale riconoscimento dell’onore verso i soldati fucilati a seguito di sentenze ema- nate «anche in assenza di un oggettivo accertamento della loro responsabilità», costituisce un gesto di pacificazione e di civiltà che va oltre i diretti interessati.
Cadorna oltre il Codice penale militare
Il Regno d’Italia entrava in guerra nel 1915 senza che il Codice Penale Milita- re (CPM) del 1870 fosse stato aggiornato con i dettami – uno su tutti l’abolizione della pena di morte – del nuovo Codice Penale Comune di Zanardelli del 1889. Le varie commissioni parlamentari che si erano susseguite tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento non erano riuscite ad armonizzare i due Codici e la guerra veniva affrontata con un quadro normativo poco chiaro e con regolamenti sul combattimento di dubbia legittimità.
Il CPM prevedeva la pena di morte in molti casi ma non riportava mai esplicitamente la possibilità delle fucilazioni sommarie. In aperto contrasto con il Codice c’erano poi le “Norme per il combattimento” del 1913 che all’art. 3 preve- devano invece le fucilazioni sommarie scavalcando così la fonte primaria. C’era inoltre l’art. 40 del CPM che obbligava chi si trovasse in posizione di comando ad usare «ogni mezzo possibile» per arginare reati particolarmente gravi come la codardia e la rivolta. Nonostante il pensiero di alcuni giuristi dell’epoca, la non esclusione delle fucilazioni sommarie certo non le aveva legittimate, se non altro per il principio di legalità di carattere del tutto generale alla base del diritto: Nullum crimen, nulla poena sine lege.
Nei primi mesi di guerra il Comando Supremo emana due circolari fonda- mentali sulla cosiddetta “Disciplina di guerra”, una il 24 maggio e l’altra il 28 settembre del 1915. Entrambe cercano di legittimare le fucilazioni sommarie. Nella seconda si legge: «Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale»1. Di questo tenore anche alcuni telegrammi di Cadorna inviati ai comandi delle armate al fronte.
Nonostante tutto l’impegno profuso, però, il Comando Supremo non riesce sempre ad indirizzare come avrebbe voluto i tribunali che operavano nelle zone di guerra come capita per quello tenutosi a Selvapiana il 26 agosto 1915, in Co- melico (Alto Cadore), zona di guerra della 4ª armata. Siamo di fronte al caso di due compagnie di alpini del battaglione Fenestrelle che si rifiutano di combattere nel giorno di Ferragosto di quell’anno a fronte di un ordine del tutto insensato che li avrebbe portati a morte certa. Il processo che ne segue, proprio perché siamo all’inizio della guerra, si svolge in condizioni di accettabile legalità e secondo quanto previsto dal Codice nella parte «in tempo di guerra». Addirittura, caso molto raro per questi tipi di processi celebrati al fronte da tribunali straordinari di guerra (TS), venne incaricato un ufficiale di comprovata esperienza di guerra qual era il capitano Cerboneschi reduce della Somalia e della Libia, con lo scopo di espletare le indagini preliminari da consegnare al Pubblico Ministero prima delle sue decisioni sul rinvio a giudizio dei sessantasette alpini indiziati. Il ge- nerale Ferrero, presidente di quel tribunale, riesce a far riconoscere agli alpini tutte le attenuanti previste dal Codice per il loro irreprensibile comportamento tenuto nelle settimane precedenti scongiurando così le fucilazioni2. Cadorna non accetterà mai quella sentenza. Continuerà a chiedere la massima fermezza ai suoi subalterni affermando che fatti tanto gravi avrebbero meritato di essere risolti «senza esitazioni e senza indugi». Troppo importante, infatti, riteneva l’azione che avrebbero dovuto svolgere i tribunali di guerra, in particolare quelli straor- dinari che si tenevano in prossimità della prima linea, per tenere sotto controllo
un esercito che già dopo poche settimane di guerra cominciava a dubitare del miraggio di un conflitto breve e dei roboanti proclami della parte interventista, peraltro minoritaria nel paese.
Si arriva così alla circolare del 22 marzo 1916 con la quale Cadorna dimo- stra tutto il suo distacco dalla realtà del fronte. Come quasi sempre in tema di giustizia militare, la circolare è firmata dal generale Giuseppe della Noce per conto del Capo di Stato Maggiore: «S.E. il capo di Stato Maggiore dell’Esercito ha rilevato replicatamente che le sentenze dei Tribunali Straordinari sono nella maggior parte improntate di una mitezza che è assolutamente in contrasto col criterio disciplinare e giuridico che ha inspirato l’art. 559 del CPM [l’articolo che regolamenta i tribunali straordinari, nda]. Ciò è conseguenza della facoltà colla quale i giudici, approfittando della facoltà concessa dall’art. 570 di non motivare le sentenze, eludono la responsabilità di infliggere la pena di morte, accordando agli imputati attenuanti generiche. Rimanendone così diminuita quella esempla- rità che, con la convocazione di tali Tribunali, si vorrebbe ottenere»3. Così, a partire dalla primavera del 1916, il Codice Penale Militare sarà spesso superato dalle misure prese al fronte nell’immediatezza dei fatti accaduti. La procedura che era stata seguita a Selvapiana costituirà un’eccezione. Alcuni esempi di seguito riportati lo dimostreranno.
Il 26 maggio 1916 è protagonista, suo malgrado, la brigata Catanzaro che si trova sul M. Mosciagh, a nord di Asiago. Il fronte sta crollando, cedono le brigate Lambro, Salerno e appunto la Catanzaro. Si diffonde il panico che provoca uno sbandamento generale delle truppe. Gli imputati di codardia per abbandono di po- sto di combattimento sono ottantadue. Si procede immediatamente alla fucilazio- ne sommaria di dodici di loro. È una vera e propria decimazione con otto soldati di truppa ai quali, per le loro responsabilità come da CPM, vengono aggiunti an- che quattro graduati. Con tempestività arriva da Cadorna l’encomio ad personam al colonnello Thermes che si era reso responsabile di tanta efferatezza. Gli altri soldati scampati alla decimazione vengono tutti denunziati al tribunale di guerra ordinario del XIV corpo. Per otto di loro non c’è nemmeno il processo venendo prosciolti in via preliminare. Altri sette sono assolti. Il processo si conclude il 1° luglio infliggendo condanne molto contenute per la gravità del reato: tre anni di reclusione militare per sei graduati e due anni per cinquantatre soldati. Per tutti c’è la sospensione della pena e il rientro immediato al reggimento. Ai condannati il tribunale ha riconosciuto «un ottenebramento delle facoltà mentali dei giudica- bili, menomandone i poteri volitivi sì da diminuirne la responsabilità senza però escluderla del tutto»4. In sostanza, si tratta della presa d’atto della seminfermi- tà mentale degli imputati a seguito del martellamento insistente dell’artiglieria, quella patologia che oggi chiameremmo stress post-traumatico o shell shock, ma che veniva riconosciuta dai tribunali militari fin dall’estate del 19155. Il colonnel- lo Giulio Douhet, uno dei padri dell’aviazione italiana, in totale disaccordo con la gestione della guerra da parte del comando supremo, osserverà: «Non conosco il colonnello T., ma ho la ferma convinzione che la terribile necessità che lo con- dusse ad adottare il grave provvedimento rimarrà il più doloroso ricordo della sua vita, ricordo che l’encomio del generale Cadorna non varrà a mitigare.
Ma constato questo fatto: tale encomio solenne, tributato con forma così solenne, è il primo che il general Cadorna ha creduto di elargire in un anno di guerra. Ora è possibile che, in un anno di guerra, e di guerra così sanguinosa, nessuna azione di più puro valore morale si sia verificata? (…). Questo Ordine del giorno all’Eser- cito è, per me, un magnifico documento della psicologia del generale Cadorna»6. Cadorna, seppur sconfessato molto spesso dai “suoi” stessi tribunali, conti- nua, attraverso il suo alter ego in tema di giustizia militare generale Della Noce, a fare pressioni sui suoi sottoposti affinché i processi comminassero pene prima di tutto esemplari. È quello che capita a Cercivento tra il 23 giugno e il 1° luglio del 1916, gli stessi giorni dei fatti della Catanzaro. Questa volta il reato conte- stato è quello della rivolta armata (art. 114 del CPM), un reato per il quale serve dimostrare il «concerto» dei soldati – almeno quattro – e di trovarsi «in armi». Nel fascicolo del processo presente all’Archivio Centrale dello Stato non si trova alcuna istruttoria. Importanti giuristi dell’epoca, tra tutti il prof. Vincenzo Man- zini, ci ricordano quanto fosse giuridicamente difficile dimostrare l’esistenza di tutte le condizioni riportate nell’art. 114, in particolare quella dell’accordo tra i soldati. In pratica, il tribunale poteva decidere in un senso o nell’altro secondo le proprie convinzioni, spesso precostituite. Le testimonianze dei superstiti confer- meranno negli anni successivi che a Cercivento si volle ad ogni costo infliggere pene che dovevano essere prima di tutto un monito per il resto della truppa senza badare al codice e all’accertamento delle singole responsabilità7.
Vennero fucilati quattro alpini. L’andamento della guerra induce Cadorna ad ulteriori inasprimenti. In una nota del 26 maggio 1916 invia al generale Lequio, comandante delle “Truppe degli Altipiani”, una raccomandazione per le «più energiche e severe misure: faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano»8. Il 1° novembre del 1916 viene emanata dal comando supremo la circolare telegrafica n. 2.910 nella quale si parla espressamente di «decimazione» e di «estrazione a sorte» tra gli indiziati prima di procedere alle fucilazioni. Nessuna informazione ufficiale pre- ventiva era stata data al Governo che invece era a conoscenza di quanto accadeva al fronte. Lo conferma il ministro Bissolati nel luglio del 1917 quando riporta nel suo diario di aver provato a convincere Cadorna affinché le decimazioni fossero limitate agli «elementi maggiormente indiziati»9. Una dichiarazione gravissima con la quale il ministro prende atto dell’illegalità praticata al fronte per volere del comando supremo, cercando solo di «mitigarla».
In conclusione, possiamo affermare che a partire dal 1916, spesso, i processi si celebravano dopo le sentenze di fucilazione emanate in modo del tutto arbitra- rio con la procedura della decimazione o dell’estrazione a sorte. Nelle giornate di Caporetto, poi, ci fu un ulteriore inasprimento nei confronti della truppa ritenuta colpevole della rotta militare subita dall’esercito sull’Isonzo. E per coloro che dimostravano di non apprezzare tali brutalità c’era pure l’accusa di vilipendio all’esercito10.
Con la fine della guerra lo Stato si trova costretto a fare i conti con il proprio recente passato. È subito chiaro che uno dei tanti nodi spinosi da sciogliere sia rappresentato proprio dai processi militari e più in generale dal modo col quale era stata amministrata la giustizia al fronte.
La Commissione d’inchiesta sulle giornate di Caporetto, nominata dal presidente Orlando nel gennaio del 1918, mette in luce aspetti della guerra che in quattro anni di conflitto la censura aveva tenuto nascosti. Nella relazione presentata al nuovo capo di governo Nitti il 24 luglio 1919, si legge: «si ha ragione di ritenere che esistano responsabilità specifiche gravi nell’arbitrario uso della pena capitale oltre i limiti del Codice penale (...)»11. Il ministro della Guerra, generale Albricci, nomina l’Avvocato generale militare Donato Antonio Tommasi di con- durre un’indagine con tanto di valutazione giuridica sulle esecuzioni sommarie e sulle decimazioni. La Commissione, di fatto, assolve giolittiani e socialisti, quest’ultimi accusati di disfattismo dalla destra politica sin dall’inizio della guer- ra. Diversi generali saranno pesantemente «criticati» mentre viene salvaguardato l’apparato militare. Dal canto suo, l’Avanti! non fa mancare una decisa risposta:
«Noi non possiamo tacere, noi che per non pochi mesi siamo stati fatti bersaglio della stupida accusa di caporettisti da parte della meschina borghesia italiana (…). Oggi che è cessata la censura e che qualche vecchio nodo comincia a venire al pettine, noi, gli accusati di ieri, iniziamo la nostra difesa, accusando a nostra volta»12. E ancora: «I generali debbono essere puniti, cacciati; si devono loro sopprimere stipendi, medaglie, pensioni, indennità. Le vittime della guerra debbono essere largamente indennizzate. Si devono aumentare le pensioni delle vedove e degli orfani dei morti; si debbono accrescere le indennità ai mutilati. Si debbono aprire le porte delle galere. L’amnistia è assolutamente il primo provvedimento logicamente richiesto dalle gravissime rivelazioni dell’inchiesta di Caporetto»13. Nitti prende anche provvedimenti contro molti importanti generali. Colloca a riposo Cadorna, Porro, Capello e Cavaciocchi e «mette a disposizione» Montuo- ri, Bongiovanni e Boccacci, provvedimento, quest’ultimo, del tutto simbolico. Sarà riabilitato invece il generale Brusati già comandante della 1ª armata fino al maggio del 1916 quando Cadorna lo aveva esonerato per il suo atteggiamento ri- tenuto troppo «rinunciatario». Inoltre, dopo alcune misure a favore delle vittime di guerra, con un decreto del 2 settembre 1919, Nitti rende esecutiva un’ampia amnistia, la cosiddetta “amnistia dei disertori”, che la destra politica attaccherà pesantemente. Provvedimento, invece, che contribuirà in modo determinante al reintegro nella vita civile di migliaia di soldati.
Il rientro dei soldati dal fronte aumenta il dolore delle famiglie di coloro che non ce l’avevano fatta. Il pensiero corre immediatamente ai dispersi e ai morti nei campi di prigionia. Il dato è impressionante. In proporzione, cinque volte superiore, ad esempio, a quello della Francia: dei seicentomila prigionieri delle truppe italiane, oltre centomila non faranno mai ritorno a casa. Nelle famiglie dei più fortunati si vivono scene di grande umanità. Quello che sarebbe diventato uno dei maggiori storici della Prima guerra mondiale, Gianni Pieropan, all’epoca bambino, racconta l’arrivo a casa di suo padre, per lui sconosciuto: «d’un tratto la mamma si irrigidì, l’attizzatoio brandito, il volto teso poi girato di scatto verso la porta: nel vasto androne adesso rintronava un passo pesante, cadenzato, mai sentito uguale; poi due colpi forti e decisi rimbalzarono sulla porta, la mamma mollò tutto, balzò all’uscio, lo socchiuse e ristette immobile, come di sasso, davanti a un uomo vestito come tanti di quelli che s’incontravano per istrada (...); passò un momento lunghissimo, quindi l’uomo si mosse e s’abbracciarono stretti, senza pronunziar parola, la sua barbaccia nera sul viso bianco della mamma, un coso lungo che gli pendeva dalla spalla, a malapena trattenuto da un fagotto che gli faceva gobba sulla schiena (...); quando si sciolsero, e ce ne volle, la mamma mi pigliò in braccio e pretese che dessi un bacio a quell’uomo: ma la barba mi faceva ribrezzo, e quello strano cappello, così duro e freddo...; sogguardai l’uomo, non potei farne a meno, i suoi occhi mi parvero umidi, forse piangeva. La mamma diede una pacca decisa al fuoco, poi accese il lume, sempre con me in braccio, c’era abituata; infine, mi depose senz’altre storie sulle ginocchia dell’uomo: finii per trovarmici bene. Così conobbi mio padre»14.
Una lapide al Vittoriano
In un clima di forte contrapposizione politica, sarà proprio il colonnello Douhet, voce fuori dal coro durante tutto il conflitto, a parlare per primo, nel luglio del 1920, della necessità da parte dello Stato di creare un simbolo che rendesse omaggio a tutti i soldati caduti per la Patria. L’idea era tanto sentita in quel momento che venne fatta propria anche da altri paesi quali Francia, In- ghilterra, Belgio e Stati Uniti. In Italia si dovrà aspettare il governo a presidenza Bonomi (socialista riformista), insediatosi il 4 luglio 1921, perché si prendesse in esame a livello parlamentare la proposta di legge che prevedeva la sepoltura di un “Soldato Ignoto” nel complesso del Vittoriano, luogo ritenuto appropriato a rappresentare l’unità nazionale. Ancora una volta, però, “l’eroe guerriero” che si voleva consacrare non poteva essere accettato da tutte le forze politiche. I socialisti, pur non facendo mai mancare l’appoggio alle celebrazioni pubbliche, sostenevano che il Milite Ignoto non avrebbe dovuto rappresentare un eroe quale si stava mitizzando ma semplicemente un uomo che aveva vissuto la guerra anche con la paura di essere fucilato se si fosse rifiutato di combattere. L’allusione alle circolari di Cadorna era evidente15. Una frattura che si farà sentire per tutto il Novecento.
Si dovrà aspettare il 2014 per veder nascere a Milano un comitato promotore – del quale chi scrive ha fatto parte fin dall’inizio – per un disegno di legge sulla riabilitazione dei fucilati della Grande guerra approvato senza alcun voto contrario dalla Camera dei Deputati nella seduta del 23 maggio 2015, data di alto valore simbolico. Tuttavia, nonostante la chiara volontà espressa da un ramo del Parlamento, si continuò a discutere sull’opportunità di un provvedimento simile. Così, al Senato, le forze politiche cambiarono opinione e il procedimento legisla- tivo si bloccò in Commissione Difesa nonostante l’adesione di oltre cento storici di fama internazionale.
Nel 2018 il tema viene ripreso dalla senatrice Tatjana Rojc. Non si parla più di riaprire i processi e di valutare la riabilitazione degli interessati. Il nuovo obbiettivo, più modesto, è quello di ridare ai fucilati l’onore a fronte del riconoscimento che i loro processi si erano svolti, spesso, al di fuori della legalità. Alcuni di noi, già promotori del vecchio DL, siamo stati chiamati in audizione in Commissione Difesa del Senato16. Finalmente, il 10 marzo 2021, la stessa Commissione approva all’unanimità una Risoluzione «a conclusione dell’esame dell’affare assegna- to sulle prospettive della riabilitazione storica dei militari italiani fucilati durante la Prima guerra mondiale»17. Il documento impegna il governo «ad affliggere, nel Complesso del Vittoriano a Roma, un’iscrizione in memoria dei militari italiani fucilati nel corso della Prima guerra mondiale», prevedendo che tale iscrizione venga «svelata nel corso di una cerimonia pubblica, da tenersi auspicabilmen- te nell’ambito delle commemorazioni del centenario della traslazione del Mili- te Ignoto nel sacello dell’Altare della Patria»18. Inoltre, dispone che il governo debba «promuovere ogni iniziativa volta al recupero, anche a livello locale, della memoria di tali caduti e ogni attività di ricerca storica che contribuisca alla ricostruzione del Primo conflitto mondiale, con specifico riferimento alle vicende dei militari italiani condannati alla pena capitale»19 e «garantire la piena fruibilità degli archivi delle Forze armate e dell’Arma dei Carabinieri per tutti gli atti, le relazioni e i rapporti legati alle operazioni belliche, alla gestione della disciplina militare nonché alla repressione degli atti di indisciplina o di diserzione, ove non già versati agli archivi di Stato»20. Il 28 ottobre 2021, il governo attua la Risoluzione collocando una lapide nella Sala delle Bandiere del Vittoriano dove è riportato:
Nella ricorrenza del centenario della traslazione della salma del Milite Ignoto all’Altare della Patria, la Repubblica Italiana onora la memoria dei propri figli in armi fucilati durante la I guerra mondiale per reati contro la disciplina, anche in assenza di un oggettivo accertamento della loro responsabilità, a testimonianza di solidarietà ai militari caduti, ai loro familiari e alle popolazioni.
L’apposizione della lapide, doverosa per i diretti interessati, costituisce anche un gesto di riconciliazione nei confronti di coloro che avrebbero voluto sin dal 1921 un Milite Ignoto rappresentativo del dolore delle famiglie di tutti i caduti, compresi quelli che avevano perso la vita di fronte ad un plotone di esecuzione del proprio esercito a seguito di un ingiusto processo.
NOTE
1 Circolare del Comando supremo 1915, 28 settembre 1915.
2 Leonetti 2014, pp. 81-89; Id. 2022, pp. 119-132.
3 Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Disciplina, M-7, busta 4, fasc. 1, circolare del Comando supremo n. 10.261 del 22 marzo 1916.
4 Archivio Centrale dello Stato, Tribunale militare di guerra del XIV corpo, Breganze, 1° luglio 1916, fondo Tribunale supremo, Fatti gravi. La sentenza è riportata in Forcella - Monticone 1968, pp. 81-83.
5 Archivio Centrale dello Stato, Tribunali militari, Sentenze I corpo 1915-1918, busta 1, vol. 1, sentenza n. 123 del 14 settembre 1915.
6 Pluviano - Guerrini 2007a, p. 58.
7 Archivio Centrale dello Stato, Tribunale supremo, XII corpo, 1916, vol. 4, sentenza n. 522bis.
8 Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (Aussme) 1916, fondo E-5.
9 Bissolati 1935, p. 86.
10 Forcella – Monticone 1968, p. 316.
11 Pluviano - Guerrini 2007b, p. 42.
12 “Avanti!”, 27 luglio 1919, Caporetto.
13 “Avanti!”, 16 agosto 1919, Altra santa campagna.
14 Pieropan 1970, p. 15.
15 Cadeddu 2006, p. 14.
16 Leonetti 2020.
17 Commissione Difesa del Senato 2021, Doc. XXIV n. 31.
18 Ibidem.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
BIBLIOGRAFIA
Bissolati 1935: L. Bissolati, Diario di guerra, Torino 1935.
Cadeddu 2006: L. Cadeddu, La leggenda del soldato sconosciuto all’Altare della Patria, Udine 2006.
Commissione Difesa del Senato 2021, Doc. XXIV n. 31, Disposizioni per la riabilitazione storica degli appartenenti alle Forze armate italiane condannati alla fucilazione dai tribunali militari di guerra nel corso della Prima guerra mondiale.
Forcella - Monticone 1968: E. Forcella - A. Monticone, Plotone di esecuzione, Bari 1968.
Leonetti 2014: D. Leonetti, Alpini alla sbarra, Udine 2014.
Leonetti 2020: Commissione Difesa del Senato, 3 giugno 2020, intervento di D. Leonetti:
(https://webtv.senato.it/4621?video_evento=87001).
Leonetti 2022: D. Leonetti, Selvapiana 1915 - Vittoriano 1921. Dalla mitezza dei tribunali alla lapide per i fucilati della Grande guerra, «Aquile in Guerra» 30 (2022), p. 119-132.
Pieropan 1970: G. Pieropan, Due soldi di alpinismo, Bologna 1970.
Pluviano - Guerrini 2007a: M. Pluviano - I. Guerrini, Fucilate i fanti della Catanzaro. La fine della leggenda sulle decimazioni della Grande guerra, Udine 2007.
Pluviano - Guerrini 2007b: M. Pluviano - I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima guerra mondiale, Udine 2007.